Per la rubrica Grandi Autori: “Il dramma del bambino dotato” di Alice Miller, raccontato da  Natasha Rossetti allieva 1 anno IAF.F

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Una crescita ideale del bambino annovera una serie di caratteristiche essenziali, prima fra tutte la capacità del genitore di connettersi ai suoi bisogni, di prenderli sul serio, di comprenderli, di rispondervi adeguatamente e in modo “sufficientemente buono”. In particolare, la madre, all’inizio, offre al neonato l’illusione che il suo seno…

Per la rubrica Grandi Autori: “Storie di adolescenza – Il sintomo dell’adolescente come via d’ingresso alle dinamiche familiari e al trigenerazionale” di M. Andolfi e A. Mascellani, raccontato da Mauro Mastrilli allievo 4 anno IAF.F

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E venne il giorno in cui il rischio   di rimanere stretti in un bocciolo   era più doloroso del rischio   necessario a fiorire. ANAIS NIN “C’è bisogno di credere fermamente nel positivo che c’è all’interno di ogni persona e cercarlo pazientemente e con persistenza, senza atteggiamenti giudicanti”. L’autore…

Per la rubrica Grandi Autori: “Il dramma del bambino dotato” di Alice Miller, raccontato da  Natasha Rossetti allieva 1 anno IAF.F

Una crescita ideale del bambino annovera una serie di caratteristiche essenziali, prima fra tutte la capacità del genitore di connettersi ai suoi bisogni, di prenderli sul serio, di comprenderli, di rispondervi adeguatamente e in modo “sufficientemente buono”. In particolare, la madre, all’inizio, offre al neonato l’illusione che il suo seno sia parte di lui e, generalmente, gli trasmette l’illusione che ella si adatterà quasi totalmente ai suoi bisogni. Il bambino necessita di essere guardato dagli occhi della madre e di rispecchiarvisi, senza incorrere nel rischio di trovarvi le proiezioni, le ansie, le attese del genitore. Il protagonista di cui parla Miller è un bambino che ben presto ha compreso come divenire l’orgoglio dei genitori, che ben presto ha iniziato ad appropriarsi di autonomie, sensibilità, adeguatezza, successi: un bambino sicuramente dotato. Ma questa “dote” porta con sè una maledizione: essa è figlia di genitori che hanno visto negli occhi del loro bambino la possibilità di riempire i loro antichi, vuoti serbatoi di bisogni infantili rimossi, vi hanno letto una disponibilità assoluta e un potere potenzialmente tirannico. Chi potrà mai, davvero, interessarsi a loro se non i figli, carne della loro carne? E il bambino, naturalmente, cade nella trappola comprendendo che per guadagnarsi l’amore c’è bisogno di essere lì per l’altro, e non il contrario: è questione di economia, non c’è spazio per se stesso e per i propri sentimenti, la posta in gioco è l’amore dei suoi genitori. Se per guadagnarselo dovrà adeguarsi, intercettando, decifrando, rispondendo adeguatamente alla madre e al padre, non esiterà a farlo, a costo di rimuovere i suoi bisogni e i suoi veri sentimenti, fino a negarli. Ma torniamo alla maledizione. Questo bambino, in un intenso e inconscio lavorio di rimozione e negazione, imparerà a vivere “come se”, ossia nel modo in cui ci si aspetta che si comporti, a costo della sua spontaneità, della sua verità e vitalità: pian piano nemmeno lui saprà più riconoscere i suoi reali bisogni a seguito dell’abitudine di porre quelli degli altri di fronte ai propri. Il falso sè ha conquistato avidamente il territorio e inizia a costruire una storia su cui poter reggere l’illusione dell’amore parentale: il bambino ha bisogno di credere di essere stato amato per quello che è, così come l’adulto che sarà. Miller si districa poi fra le trame del destino di questi bisogni infantili rimossi, negati, scissi, identificando due scenari possibili: la grandiosità e la depressione, due facce della stessa medaglia. E, dietro entrambe, una grande difficoltà a separarsi, individuarsi dalla Madre e dal Padre: da queste figure cercherà per molto tempo un riconoscimento di bisogni antichi, inconsci, ormai anacronistici nella sua vita di adulto. Come sarebbe possibile per questo bambino-adolescente-adulto separarsi e individuarsi con facilità se non è mai stato veramente visto? Se non è mai veramente appartenuto, perché egli stesso non si appartiene né si riconosce? La grandiosità rappresenta lo scenario

Per la rubrica Grandi Autori: “Storie di adolescenza – Il sintomo dell’adolescente come via d’ingresso alle dinamiche familiari e al trigenerazionale” di M. Andolfi e A. Mascellani, raccontato da Mauro Mastrilli allievo 4 anno IAF.F

E venne il giorno in cui il rischio

 

di rimanere stretti in un bocciolo

 

era più doloroso del rischio

 

necessario a fiorire.

ANAIS NIN

“C’è bisogno di credere fermamente nel positivo che c’è all’interno di ogni persona e cercarlo pazientemente e con persistenza, senza atteggiamenti giudicanti”. L’autore pone da subito 

l’importanza per tutti gli adolescenti di avere un rapporto sano (di dipendenza) con i propri genitori, che li aiuti nel difficile compito evolutivo che li aspetta, oltre a questo la necessità di un sano ottimismo rispetto alla possibilità di riattivare la vitalità familiare dove quest’ultima si era bloccata,

narrando una nuova storia della famiglia, una storia che guarisce. L’idea di base sostiene che nelle famiglie ci sono le risorse per affrontare i problemi, il terapeuta è un facilitatore che assieme al gruppo le cerca e le riattiva, l’intervento sarà tanto efficace quanto la famiglia avrà possibilità di movimento, mantenendo la sua unicità.

Gli scenari sono cambiati e le famiglie risentono del narcisismo sociale e i figli sono diventati il metro per giudicare il buon lavoro della coppia, figli come pezzi di creta modellati sulle idealizzazioni e i bisogni dei genitori (il debito narcisistico con il quale ognuno di noi viene al mondo). Inoltre il periodo dell’adolescenza si è temporalmente allargato creando confusione su quali siano gli elementi centrali.

Sicuramente è centrale il tema dell’identità e della sua costruzione ed evoluzione, l’adolescente si dovrebbe muovere tra separazione ed appartenenza, cercando di raggiungere così l’individuazione, la possibilità di viversi come soggetto separato. Per questo è necessario pensare al bisogno dell’adolescente di essere ambivalente rispetto al suo passato ed il suo futuro o tra l’interno e l’esterno della sua famiglia, “crescere è per propria natura un atto aggressivo” (Winnicot).

L’adolescenza è metamorfosi nel corpo, nella mente, nelle relazioni familiari ed in quelle sociali. L’adolescente vive il cambiamento tra due poli, l’intrapsichico e il relazionale, il punto di incontro si trova nel sé, unico organizzatore di quella che Baldascini chiama mobilità intersistemica. Attraverso questo movimento tra sistemi che richiede flessibilità, l’adolescente può emanciparsi dalla propria famiglia superando i bisogni di dipendenza.

L’autore pone la sua indagine terapeutica in ottica trigenerazionale, lo ritiene un viaggio a ritroso, cercando nessi e collegamenti sia nelle relazioni orizzontali che in quelle verticali, per la famiglia importante riappropriarsi della propria storia, in particolare per l’adolescente che dovrà separarsi appartenendo alla sua storia familiare, mentre i genitori dovranno tollerare la distanza e contenere le angosce separative.

La terapia è un incontro di mondi interni, relazionali e trigenerazionali, è l’incontro umano ed emotivo che cura, dove sono importanti le risonanze e le evocazioni del mondo interno familiare del terapeuta. La famiglia e il terapeuta sono allo stesso tempo musicisti e strumenti che si suonano a vicenda, le strofe musicali più toccanti rimarranno nella memoria di ciascuno come risorse suggestive ed emotive.

E’ importante nella terapia tener presente il pensiero di Stern che sostiene che la nostra essenza si manifesta in quella finestra sfuggente che è il presente che mostra ciò che siamo. Con i genitori degli adolescenti c’è sempre una casa che brucia, bisogna saper gestire il senso di pericolo che sentono… G. Lombardi mi parlava di questo periodo come di un pendolo, lo fa anche l’autore che parla di ambivalenza e dualità, dove spavalderie e disprezzo per il mondo adulto nascondono a volte angosce separative.

La famiglia è come un lago dove convergono due fiumi diversi che cercano di integrarsi ed proprio l’adolescente il depositario della storia emotiva familiare.. Trovo interessante l’idea che in ottica sistemica possano essere una grande risorsa gli amici, sia in terapia che nella vita, anche de Bernart parlava dell’esigenza di una terapia gruppale per loro.. Andolfi ci invita a pensare la diagnosi in chiave strutturale, valutando il contesto, ed evolutiva indagando il ciclo vitale e di come la famiglia reagisce agli eventi normativi e paranormativi, ci consiglia inoltre di interpretare il sintomo in relazione all’ambiente di vita.

Secondo l’autore sono importanti genuinità e coraggio, un vero interesse e una curiosità autentica possono divenire un modelling per gli stessi genitori. Ascoltare quella musica fatta di gesti, silenzi e parole dell’adolescente, restituendogli ciò che di lui abbiamo capito. La mia storia professionale inizia nell’ambito della tutela di adolescenti feriti, cresciuti in contesti malsani, dove spesso la realtà dei fatti superava l’immaginazione, credo che questo mi abbia influenzato e messo nell’idea di proteggere i giovani dalle loro famiglie.

Mi piacerebbe riaprire questo capitolo ed integrare ciò che sto imparando per poter pensare che dentro la famiglia ci siano significati e risorse utili per l’adolescente e più in generale per qualsiasi persona. Andolfi parla di violenza come atto comunicativo, come modalità disfunzionali di comportamenti  potenzialmente funzionali. Attraverso il parallelismo tra terapia e aikido l’autore ci invita a non avere paura della violenza e di non opporci ad essa ma di accoglierla e trasformarla in energia evolutiva. Entrare in contatto con la famiglia con autentico interesse significa accogliere e non respingere, mettere da parte le nostre “mappe”. C’è un nuovo da scoprire, rimanendo centrati, pronti alla scoperta, cogliendo ciò che di diverso da noi c’è in quello spazio relazionale. In più di un’occasione l’autore ci parla dell’importanza di una dipendenza sana e di rapporti autentici e intimi, elementi che trovano poco interesse nella nostra società, orientata 

all’indipendenza e all’autosufficienza come se ognuno fosse un’isola e come se la vicinanza relazionale possa essere sostituita dalla soddisfazione di bisogni individuali e narcisistici. Le dipendenze sane si hanno lungo tutto il ciclo della vita, significa sentirsi amati e compresi ed alla base del senso di appartenenza, appartenere significa avere gli altri significativi dentro di sè. Cadere in una forma dipendenza patologica per l’autore può avere a che fare col non avere sperimentato dipendenze sane e dal aver vissuto passaggi difficili, per Cirillo alla base delle dipendenze c’è sempre un abbandono in famiglia che possono essere: dissimulati, misconosciuti e agiti.

Per Andolfi l’uso collettivo di sostanze nei giovani sarebbe un modo disfunzionale di combattere la solitudine, di entrare in contatto con l’altro. Nei casi gravi di dipendenza è necessaria una rete multidisciplinare che non esclude la comunità terapeutica. La possibilità di essere sostenuti nella crescita, l’appartenenza a valori familiari e la spinta verso un’autonomia, sono gli ambiti che possono essere seriamente compromessi e creare sofferenza psichica nei giovani ma sono anche gli stessi luoghi dove cercare le risorse ed intervenire.

La tendenza ad esprimere con il proprio corpo e con gli agiti i contenuti non traducibili in rappresentazioni mentali è una caratteristica tipica dell’adolescenza. L’anoressia ne è un esempio, cioè la ricerca esasperata della magrezza sacrificandosi estremamente per controllare la paura di ingrassare. L’immagine del proprio corpo e lo sviluppo dell’identità di genere sono basilari per l’esordio. Questo fenomeno è strettamente legato alla cultura ed al modello estetico dominante. E’ importante tenere presente che l’anoressica lotta contro la guarigione e contro chi la impone, lei punisce il suo corpo per punire parti inaccettabili del proprio sè. Le famiglie possono avere la tendenza all’invischiamento con confini rigidi verso l’esterno e labili al suo interno.

Matteo Lancini paragona il ritiro sociale nei maschi all’anoressia nelle femmine parlando di società narcisistica, genitori che privano i figli di sperimentare sofferenza e fallimenti, fanno un grande investimento su di loro e tutto questo può rendere traumatico il salto in adolescenza dove non ci si sente più protetti e adorati come in famiglia… Quindi il problema non è il cibo ma il mondo esterno, le adolescenti anoressiche possono diventare compagne affettive di madri “sole”, possono inoltre essere spettatrici privilegiate di conflitti di coppia, di tagli emotivi e carenze affettive dei genitori e si possa specializzare in funzioni di accudimento alla stregua di una “nonna”.

Andolfi ci invita ad allearci al paziente portatore del sintomo per entrare nel mondo familiare, lo fa riconoscendo il suo ruolo e la sua battaglia, costruendo l’alleanza sulla base di una sintonizzazione affettiva, sull’incertezza iniziale della relazione terapeutica e sulla fiducia/sfiducia. Ho trovato interessante l’attenzione posta sull’obesità e la considerazione che l’adipe possa essere sia una sorta di confine nella massa indifferenziata della famiglia sia come schermo verso l’esterno, un camuffamento che nasconde le parti di sé meno accettate. Anche in questo caso Andolfi evidenzia e normalizza il sintomo, lo usa come punto di partenza, poi inizia una ricerca a ritroso tra le generazioni, ed attraverso i fatti e nessi costruisce il significato relazionale del sintomo.

Parlando di depressione l’autore premette che la nostra società spaventata dalla depressione e dalla tristezza tanto da preferire l’assenza di emozioni. La tristezza è un sentimento nobile ed è legata alla capacità di riflettere su noi stessi, ci da la possibilità di ridimensionare egoismo e grandiosità oltre che stare nel dolore per poterlo superare, come ci spiega con semplicità il film “inside out “. In adolescenza un vissuto depressogeno può essere fisiologico a causa intanto della perdita e della rinuncia all’infanzia, oltre che all’intensità emotiva con la quale i giovani rispondono agli eventi della loro vita.

La tristezza è incompatibile con la nostra società che corre senza sosta, ma molti di noi vengono colpiti da mali antichi con declinazioni e caratteristiche nuove. Oggi il vissuto di insufficienza ed inadeguatezza provoca un blocco dell’azione, lo vediamo nei ritirati sociali ma anche negli attacchi di panico. E’ la vergogna o la possibile vergogna l’emozione alla base di questi disagi. Abbiamo bisogno di educare i nostri figli al fallimento e alle storture, il vero sé si forma proprio da queste esperienze frustranti e per primi noi adulti e genitori non dobbiamo colludere con la tendenza a negare la tristezza e le difficoltà.

Non dovremmo caricare le spalle degli adolescenti del bisogno di felicità degli adulti. I giovani dovrebbero essere artefici della loro realizzazione e felicità. Il difficile passaggio adolescenziale e la rabbia narcisistica tipica di questo periodo evolutivo può essere mascherato inizialmente da atteggiamenti di chiusura. Può poi esplodere in aggressività etero o auto diretta. In quest’ultima vediamo sintomi come autolesionismo, attacchi al corpo come l’anoressia o il ritiro sociale fino al suicidio. Quando la sofferenza è tale da non essere più rappresentabile, i giovani adottano comportamenti con l’obiettivo di allontanare tale angoscia.

Attaccando il corpo si attacca il legame primario, quel corpo nutrito e cresciuto dai genitori. Come gli altri comportamenti anche il tentativo di suicidio è una forma complessa di comunicazione non verbale, attraverso la quale si cerca di spiegare una serie di emozioni e 4problematiche che avrebbero bisogno di essere elaborate e di trovare voce.

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